19 metri quadri d'inferno
19 METRI QUADRI D’INFERNO Un’idea antica dice che ciascuno viene al mondo perché è chiamato. È un pensiero di Platone, che sostiene che prima della nascita la nostra anima sceglie il percorso che poi faremo sulla terra. Riceve in sostanza un compagno che ci guida, che è il portatore del nostro destino, un daimon, un demone, che è unico, tipico e solo nostro. Non ci abbandona mai, fino alla morte. I latini lo chiamano genius, ed è quello che noi chiameremmo vocazione o carattere. A queste riflessioni, ben descritte ne Il Codice dell’Anima di James Hillman, ho pensato quando ho conosciuto Antonio Manta, visto i suoi lavori e osservato quello che gli ruota intorno. Antonio Manta coltiva la passione per la fotografia fin da bambino, in questi casi si direbbe “ce l’ha nel sangue”. La sua fortuna è stata quella di incrociare a 13 anni il vecchio fotografo del paese a Empoli che, nonostante il carattere introverso, gli concede di andare a bottega. Parla poco, ma in compenso lo lascia libero di muoversi in camera oscura, tra gli acidi per la stampa, maneggiare i negativi, e familiarizzare con le attrezzature. Imparare, in parole povere, tutti i trucchi del mestiere. Suo padre, militare di formazione, che non condivide appieno questo interesse, lascia fare, ma in cambio pretende che studi il clarinetto. Nonostante Antonio, ancora oggi, dica di essere poco portato per la musica, arriva al 5° anno del conservatorio e a suonare come solista in concerti importanti. Un’esperienza che probabilmente lo ha influenzato anche nella fotografia, come sottolinea il critico Roberto Mutti, infatti, «per comprendere appieno la bellezza raffinata delle stampe di Ansel Adams bisogna ricordare che era anche un eccellente pianista: sapeva benissimo che uno spartito è un punto di partenza per l'interpretazione personale della musica e con lo stesso spirito si poneva di fronte a un negativo da cui sapeva far emergere le mille sfumature e i giusti cromatismi indispensabili per ottenere una grande stampa». Il daimon di Manta è chiaro, la fotografia è la sua vocazione, affinata nel tempo anche da incontri importanti. Primo fra tutti quello con Nino Migliori, maestro che non necessita di presentazioni e di cui Antonio parla sempre con affetto e grande ammirazione. Nino è una fonte d’ispirazione, una guida e un costante stimolo. Ogni lavoro passa sotto i suoi occhi e attraverso i suoi consigli prima di venire pubblicato o esposto. Antonio passa dal ritratto classico, al reportage, a sperimentazioni personali con grande disinvoltura. In questo ultimo lavoro si racchiudono molte sue doti, l’originalità nel trattare certi temi, la sensibilità, la maestria tecnica, sia in fase di ripresa che in postproduzione. Il titolo, suggerito dal maestro, come tiene a sottolineare Antonio, è già un’anticipazione significativa, 19 m2 d’inferno, e non fa pensare a nulla di buono. Anche se buone sono le intenzioni che lo hanno portato in Zambia insieme ad un gruppo di amici colleghi. Carlo Landucci, è uno di questi amici che nel 2002 fonda l’associazione GLI OCCHI DELLA SPERANZA, che tre anni dopo viene riconosciuta Onlus. In pochi anni sono stati raggiunti successi importanti, sono stati installati due laboratori ottici, uno studio odontotecnico e un reparto di analisi mediche, costruito case per il lebbrosario locale e altri progetti. Su queste premesse ha lavorato Antonio, senza farsi sedurre dall’Africa più fotografabile, quella dei tramonti e dei bambini con gli occhi grandi e liquidi. Le idee di partenza sono di ritrarre le attività della Onlus nei lebbrosari e quella delle suore che si prendono cura dei bambini sordomuti, ma per rimanere fedele al suo carattere decide di ritagliarsi, nel vero senso della parola, uno spazio tutto suo. Si rinchiude dentro un bar per raccontare l’umanità che ci ruota intorno nell’arco di 24 ore. Qui si consumano, ogni notte, fiumi di alcool, un’abitudine tanto drammatica quanto diffusa in molti paesi africani. 19 metri quadrati sono le misure di questo luogo, dove si alternano, come ben si vede nel lavoro di Manta varie figure, la maggior parte uomini ma anche qualche donna. Alcuni abiti e piccoli accessori rivelano l’ambito professionale o, quanto meno, fanno intuire che quello è anche un dopo lavoro. Per prima cosa salta all’occhio l’essenzialità del luogo: quattro mura incrostate, delle panche sgangherate, qualche bottiglia dalla quale si deduce che la produzione è al cento per cento casalinga e nessun oggetto appeso alle pareti. Ad eccezione di un piccolo juke-box, collegato a grandi casse impolverate dalle quali la musica che esce dà il ritmo allo sballo. Antonio entra in quel micromondo con qualche comprensibile tensione iniziale che viene presto superata perché lui in quelle situazioni ci sa fare, e registra quello che succede. Molti di loro si bevono lo stipendio di un mese in tre giorni e allora viene naturale farsi delle domande. Per prima cosa l’autore si chiede che senso abbiano gli aiuti portati dalle Ong e gli sforzi di alcune persone che hanno lasciato il proprio paese e vivono in quel posto nel tentativo di migliorare la situazione. Come suor Carmela, per esempio, che vive in Zambia da oltre 50 anni e che con piglio molto pratico e poco teorico, come si conviene a chi fa scelte di questo tipo, combatte non solo le malattie endemiche ma, soprattutto, alcuni modelli sociali. Di fronte a questa umanità il fotografo si chiede se costruire ospedali, portare medicine, e occuparsi dei problemi più appariscenti sia la scelta giusta, oppure se non sarebbe meglio offrire altri strumenti, investire nell’educazione, nella cultura del lavoro e della famiglia. Viene da chiedersi come mai alcuni paesi emergenti siano riusciti ad avere una svolta economica mentre l’Africa sia sempre nelle stesse condizioni. Questo lavoro apre un dibattitto attualissimo e importante. Considerazioni ben spiegate dalla giovane economista Dambisa Moyo, guarda caso originaria proprio dello Zambia, nel suo libro dal titolo piuttosto eloquente, La Carità che Uccide. Qui fa un’analisi precisa di come gli aiuti creino una dipendenza molto dannosa, innescando un circolo vizioso di corruzione, malattie e povertà. «Negli ultimi cinquant’anni – scrive - oltre un trilione di dollari americani è stato trasferito dai paesi ricchi all’Africa sotto forma di aiuti per lo sviluppo». Spesso, anche se in buona fede, l’elemosina può essere dannosa e cita il caso di un piccolo produttore di zanzariere costretto a chiudere la sua attività perché alcune organizzazioni internazionali le distribuivano gratuitamente danneggiando l’economia del paese. E così, presi dallo sconforto, molti giovani africani istruiti, risorse importanti per il proprio paese, vanno all’estero e difficilmente rientrano in patria. Questo progetto fotografico è importante perché offre un punto di vista nuovo e originale su un paese che è sempre sotto i riflettori ed è diventato un bene di consumo culturale. Attori, cantanti e soubrette si fanno portavoce dei mali dell’Africa. A sorpresa Manta, che maneggia con disinvoltura il medio formato, in questo caso fa la scelta precisa di utilizzare una macchina compatta, con un obiettivo 35mm f/2, perché in questo modo è costretto a muoversi per cercare il risultato che gli piace e a pensare bene prima di scattare. Inoltre una macchina di dimensioni ridotte consente un approccio più delicato e poco invasivo, come del resto testimoniano le fotografie, dove la sua presenza è discreta e amalgamata con quello che gli ruota intorno. Non c’è bisogno di commentare le foto, perché quegli sguardi spenti dagli effetti dell’alcool parlano da soli. Molto forte simbolicamente l’immagine di quell’uomo che combatte contro la sua ombra riflessa sul muro, perché spesso è proprio così, il nemico da sconfiggere è dentro noi stessi. Silvia Amodio
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